Manuale di lingua e mitologia urbana

Tamarro

di paiuuura da blabla
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[Sull'origine del tamarro]

L’origine del tamarro si perde nella notte dei tempi. E lui per farsi luce già allora si vestiva catarifragente come un operaio dell’Anas. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il tamarro non è un Made In Italy, ma un’importazione dal Medio Oriente. Deriva da tamar, pare, che in arabo significa “venditore di datteri”. La sua diffusione in Italia avvenne più o meno così:. Un giorno, uno scafista attraccò la sua carretta sulle rive dell’Italia del Sud e cominciò a far scendere un comitiva di persone. I nuovi arrivati furono accolti con il calore tipico degli indigeni, che tentarono di appiccare fuoco agli ospiti. Tra i malcapitati vi era un certo Tamar che disse di conoscere il segreto della dolcezza. Indossava un turbante a pois gialli e rossi. Tamar tirò fuori da certe ceste che si era portato dietro un frutto essiccato e rugoso come la pelle di vecchia e lo propose agli indigeni. Una volta in bocca il frutto si sfaldava rilasciando un sapore dolce e ricco. Erano datteri e piacquero a quegli antichi popoli italici, tanto che risparmiarono la vita a Tamar e gli concessero di esercitare sul loro suolo la professione di venditore di datteri. Tamar era un first-comer, il prodotto che offriva era innovativo e di qualità, il prezzo competitivo, perciò in pochissimo tempo mise in piedi un’intera piantagione di palme da dattero, la cui fama varcò i confini del paesino. Un signorotto locale aveva una figlia così bella che poteva nutrirsi solo di lingue di cardellino e brodo di giuggiole. La ragazza, tuttavia, era nauseata dal solito cibo e desiderava nuove emozioni in cucina. Così quando si venne a sapere di Tamar, il venditore di datteri andò ella stessa nella sua bottega per una degustazione. Tamar, ormai ricco e famoso, non era però di buon umore e da qualche giorno faceva queste riflessioni: «Tamar, ora che sei ricco e famoso non sarebbe meglio se ti trovassi una moglie? Sei giovane e lavori tantissimo. Ma gli anni passano. A chi trasmetterai le tue sostanze, visto che non hai figli? Chi ti darà la gioia di piccoli Tamarrini che corrono all’ombra delle piantagioni? Conosci il segreto della dolcezza, ma a che serve la dolcezza se non hai l’amore?» Mentre faceva queste riflessioni capitò nella sua bottega la splendida figlia del signorotto locale che disse: «Straniero, ho sentito dire che conosci il segreto della dolcezza» Tamar fu folgorato dai sottili capelli della ragazza, dalle sue guance rosee come la pelle di un neonato, dal modo in cui le vesti si adagiavano sulle forme del suo corpo. Le incartò quindici chili di datteri e glieli regalò, poi inchinandosi le chiese se non le andava di uscire con lui… qualche volta. La fanciulla rispose: «Straniero… ma cos’è quel cavolfiore a pois che porti in testa?» e se ne andò lasciando lo schiaffo della propria bellezza sulla guancia magrebina di Tamar. L’indomani Tamar si bardò con i suoi vestiti migliori: una tonaca fuxia con dei lustrini, un mantello giallo fosforescente e delle babbucce rosse con la punta arricciata d’in su. Ma il tocco di classe era un turbante da festa, un copricapo d’argento glitterato che aveva lo stesso effetto delle luci stroboscopiche in discoteca. Andò alla casa del signorotto con una fornitura maxi del frutto della dolcezza e chiese udienza. Il signorotto gliela concesse e un quarto d’ora dopo, mentre sorseggiavano del caffè, Tamar fece la sua proposta. «Gentile don Ciccio, si degni di guardare fuori dalla finestra» Don Ciccio era il nome del signorotto locale e guardò fuori dalla finestra e rimase piuttosto meravigliato nel vedere un branco di cammelli che pascolavano serenamente nel giardino. Si voltò interrogativamente verso Tamar. «Sono tutti vostri, se mi concederete la mano di vostra figlia» disse Tamar sorridendo. «Sono onorato» disse don Ciccio «Ma…» «Non bastano? Ne aggiungo altri cento» «Ma…» «Ok, ok, facciamo altri duecento e una fornitura a vita di frutti della dolcezza, va bene?» «Caro amico» disse Don Ciccio «Non è la quantità a disturbarmi. È che dovremmo sentire cosa ne pensa mia figlia» La figlia sopraggiunse, in compagnia delle sue guance rosee come la pelle di un neonato, e Don Ciccio le spiegò la proposta di Tamar, sottolineando gli innumerevoli vantaggi di possedere quattrocento cammelli e una fornitura di datteri a vita. «Ma babbo» disse lei «Come potrei mai amare uno che sembra vestito da carnevale? Tutta la gente riderebbe di me, se andassi in giro con un tizio che ha un disco volante in testa!» «Signorina!» disse allora Tamar «Quello che ho sulla testa non è un disco volante ma un turbante. E nel mio paese questo turbante è segno distintivo di signorilità e saggezza!» «Sarai anche ricco e saggio, ma ti vesti come uno scemo» disse lei. Tamar allora se ne andò portandosi via i cammelli, con sommo rammarico di don Ciccio. Per tre giorni e tre notti Tamar pensò alla fanciulla e più ci pensava, più le parole di lei lo tormentavano: «Sei vestito come uno scemo! Sei vestito come uno scemo!». All’alba del quarto giorno ne venne a capo: se il problema era solo questo, non doveva che cambiarsi vestiti, no? E così fece. Diede un’occhiata in giro, si fece un’idea su cosa era considerato trendy quell’anno. Entrò nel primo negozio Diesel e chiese alle commesse di rifarsi il look. Rimase dentro quattro giorni ma quando ne uscì era un altro. Indossava dei jeans strizzapalle con sgambatura a sigaretta, una felpa giallo fosforescente con la scritta “Ne vuoi? Ce n’è”. Un giubbotto in simil pelle con delle fantastiche frange da cow-boy lungo tutte le cuciture. Le calzature erano delle stilosissime scarpe dai colori sgargianti con delle suole che sembravano delle palafitte (“zeppe” le aveva chiamate la commessa). Negli occhi di tamar brillava la gioia della lucertola del deserto dopo aver cambiato la pelle e sulla sua testa troneggiava un copricapo in vero pelo di furetto, stile David Crocket. Si guardò allo specchio e non potè trattenersi dal dire: «Sono Aziz di nome e di fatto». Poi andò dal parrucchiere. Così azzizzato ritornò alla casa di Don Ciccio con il seguito di cammelli (cosa di cui Don Ciccio si rallegrò assai) e chiese nuovamente la mano di sua figlia. Lei appena lo vide, non lo riconobbe. Tamar allora si tolse il copricapo ed esibì il suo taglio a nido d’uccello: era rasato dai lati mentre sulla sommità della calotta cranica torreggiava una siepe di capelli mesciati, alta dieci centimetri, che rimanevano sparati all’insù grazie ad un gel dalla formula innovativa che conteneva del cemento armato. Con il cappello di furetto sotto il braccio e un sorriso disarmante sulle labbra, Tamar chiese: «Allora?» «Uhmm» disse la fanciulla e poi disse «Uhmm» e poi ridisse: «Uhmm». Don Ciccio che aspettava una risposta con ansia le chiese di spiegarsi meglio; allora la fanciulla parlò così: «Caro venditore di datteri, ti sei comperato dei gadget alla moda. Ti sei tagliato i capelli come un discotecaro. Hai un cappello che farebbe invidia a chiunque. Mi stai simpatico e mi fai un sacco ridere, ma non potrei sposarti nemmeno se venissi vestito da papa. Perché sotto i vestiti c’è sempre Tamar, il venditore di datteri e io sono una ragazza trendy» L’occhio di lucertola di Tamar s’intristì molto a sentire queste parole. Raccolse i cocci del suo cuore, si schiacciò in testa il suo copricapo di furetto, fece un fischio ai cammelli e ritornò verso il paese, giù di corda come una chitarra senza il mi cantino. Mentre camminava pensava così: «Ah, Tamar, sei solo e povero» aveva infatti venduto la sua piantagione di datteri per comperare i vestiti della Diesel e i cammelli da regalare al padre della fanciulla «E la gente qui non ti stima per via del tuo lavoro. Non sarebbe meglio se tu non fossi mai venuto in Italia, nel paese del fashion? Non stavi forse meglio nel tuo paese di nascita? E ora cosa farai di questi quattrocento cammelli?» Stava camminando per la sua strada, rigirandosi questi tristi pensieri, quando udì un fischio sguaiato e delle urla sbarbine: «Ahò, appezzo de figo? Sì, dico a te, abbello de mamma. Dove te la zippi con i tuoi boys? » Dall’altro lato della strada una ragazza lo salutava con la mano. Indossava certi pantaloni arancio fosforescente che resistevano appena alla straripante generosità del suo culone. Un bomber lucido e nero come un sacchetto dell’immondizia e delle zeppe che la facevano sembrare un trampoliere da circo. Ma il dettaglio che accese le fantasie di Tamar era la gomma da masticare. Masticava con la sensualità di un cammello e ogni tanto faceva delle bolle di ciunga che esplodevano lo schiocco di baci appiccicosi. Era Domenica, figlia del meccanico di paese, detta più spesso Aaaaaddomé, cozza truzzarella, e Tamar nella sua conturbante cammellosità la trovò bellissima. «Minchia raga, ma lo sai che sei proprio un bel manzo? Cioè, raga, che stile le tue zeppe. E le frange! E il cappello di furetto. Cioè, raga, sei troppo un mix tra sensibilità mediterranea e überfashion» «Signorina, sono onorato di…» «Signorina? Ma come minchia parli, raga? Cioè, in quale disco sei andato a scuola? Non ti ho mai visto da queste parti» Quando Tamar le rivelò di essere il venditore di datteri, la cozza non ci voleva credere. Così lui le spiegò la storia dall’inizio. La cozza gli disse soltanto: «Stai scialla» e lo baciò. Quella stessa notte gli insegnò molte cose che lui nemmeno immaginava e lo fece innamorare di sé. Si fidanzarono. L’indomani lui cominciò a frequentare il bar del paese e quando raccontò in giro le sue prodezze sessuali con la cozza divenne una delle colonne culturali dei clienti. Nel frattempo trovò lavoro come apprendista meccanico nell’officina del padre di Aaaaaddomeé e anche lì si guadagnò onore trasformando una vecchia Uno sgaruppata in un bolide da corsa. Quando aggiunse il dettaglio pittoresco di certe tendine con l’immagine di Jim Morrison, i ragazzini cominciarono a venerarlo come un dio. Tutti gli copiarono la pettinatura a nido d’uccello e quel modo geniale di maneggiare donne e motori. Lo ammiravano così tanto che smisero di chiamarlo Tamar, il venditore di datteri, e lo chiamarono Tamar, il trendsetter. Visse per lunghi anni in compagnia della moglie cozza e dei quattrocento cammelli. Morì molto onorato, dopo aver messo al mondo una conigliata di figli.
| Voti: 106
di Bob Medusa da Verona
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Uno sperduto paesino del salento, profondo sud. Le tre del pomeriggio d’estate, sole cocente, caldo secco, seduti al Bar Palme, sotto l’ombrellone. Unici rumori che si avvertono sono quelli di alcune cicale in lontananza, la radio che racconta le ultime imprese del Lecce Calcio e le tendine da negozio di alimentari che si muovono aritmicamente. Qualche chiacchiera di tanto in tanto non turba la quiete del posto e il pomeriggio sembra stancamente scivolare via con quest’andatura. Infine arriva: preceduto dal battito da discoteca sparato a 500 watt dall’autoradio, la Uno turbo grigio topo, svolta l’angolo e compare sul corso cui si affaccia il bar, lentamente avanza, poi di colpo un’accellerata e subito con una frenata sgomma vicino al marciapiede fermandosi di sbieco. La musica (tunza…tunza…tunza) imperversa ancora per un minuto buono, poi si spalanca la portiera del lato autista della Uno turbo e smonta un giovane uomo: zoccoli di legno e pantaloncini corti mettono in evidenza due possenti gambe pelose. Canotta ultimo urlo (l’anno scorso andavano giallo verdi con la scritta “Brasil”, l’anno prima bianche e nere col marchio Adidas ecc…) sormontata da catena d’oro con medaglione, tatuaggio tribale senza senso ma figo, occhialoni da sole Original Marocchin’s acquistati dal Vu Cumprà al mare dopo un’estenuante trattativa. Signori, questo è il tamarro.
| Voti: 35
di Redazione Bruttastoria da Verona
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Etimologicamente la parola tamarro pare derivi dall’arabo tamar, che significherebbe venditore di datteri. Una seconda etimologia vorrebbe che tamaro sia il pampino infruttuoso della vite selvatica. Ok. Ma l’etimologia non risponde a domande come: cosa significa tamarro? Chi è il tamarro? Cosa vuole dalla vita? Cosa centrano datteri e viti con le centinaia di adolescenti, giovani e non più giovani che ogni anno affollano i bordi delle piscine e indossando costumi hawaiani e Rayban Original Marocchin’s ci fanno sentire fuori dal giro?

La difficoltà principale nel definire il tamarro, risiede nel fatto che è frequentemente associato ad altri stereotipi. Non è raro infatti che un discotecaro o un coatto romano vengano additati come tamarri, mentre sarebbe più corretto dire che esistono tamarri, che sono anche coatti o discotecari (vd. TAMARRAGINE per un’indagine più approfondita delle caratteristiche formali).

A questo proposito forse è interessante notare che certi figli di immigrati extracomunitari hanno un non so che di tamarresco: con le loro collane, gli anelli esibiti, il telefonino esposto come status sociale, i capelli impomatati, le scarpe da ginnastica di colori sgargianti, i marchi del vestiario contraffati, l’organizzazione in bande che affollano i Mc Donald’s… sono così dissimili da certi genuini fratelli d’Italia?



Non si vuole qui essere razzisti, si intende piuttosto alludere a quel fenomeno di osmosi culturale che avviene tra una comunità ospitante ed una ospitata, per cui entrambe le comunità prendono e apprendono qualcosa dell’altra. Il dato è ancora più interessante se si tiene conto che nella zona a nord della nazione si tende ad associare i più fulgidi esempi di tamarro inside con i meridionali.

Questo per esempio ci porta a chiederci se il tamarro, nonostante il look che spacca, sia davvero così fico come vuole dar a vedere.  A noi sembra che egli sia sempre l’elemento irriducibile, un Calibrano, un Franti: il meridionale, l’immigrato, il discotecaro, il supercafone, il rappettaro, il truzzo –tutta gente che, dipendentemente da chi guarda, vengono additati come tamarri per il loro gusto kitsch- sono elementi instabili, che hanno alle spalle storie di periferia, di quartieri secondari, spesso rabbiose.

Ma l’essenza della tamarrità non è una questione sociale (o non solo), bensì di cattivo gusto.

Il tamarro è uno che tenta ostentatamente di atteggiarsi come persona alla moda. Ma per vari motivi non ci riesce, altrimenti non sarebbe più un tamarro, ma un fighetto, un cagone, uno sborone. La differenza tra un tamarro e un fighetto è che il fighetto, nel senso più deleterio del termine, compera ogni capo d’abbigliamento originale e a prezzo pieno e si offende se tu insinui che l’ha comperato durante i periodi di saldi, perché crede nel prestigio del denaro. Il tamarro invece è uno che arriva a comperare capi griffati Original Marocchin’s perché crede nel benefit d’immagine che una marca dà. Entrano in gioco qui due variabili che di solito il tamarro non calcola e che contribuiscono alla sua tragedia personale. Il primo è la vastità del concetto di “moda”: Chi è alla moda? Che cos’è la moda? La moda è quella di Cosmopolitan o di Vogue? È moda scegliere le Clark’s piuttosto che le Vans in risposta alle aspettative del branco?

La seconda variabile non calcolata è la cultura personale del tamarro, il quale per essere tale, deve anche essere uno zoticone. Nei casi di tamarragine d’autore, come ad esempio Funkytarro, la famosa canzone degli Articolo 31, o Supercafone d’Er Piotta, la zoticaggine è più esibita che reale, sembra anzi il risultato di una attenta strategia di marketing: sono un uomo medio consapevole di esserlo, e tutti gli uomini medi consapevoli di esserlo, dovrebbero comperare i miei dischi…

Il tamarro vero, incosciente ai piedi della Storia, non è nemmeno sfiorato dall’idea di ascoltare gli Articolo 31. Il tamarro vero ascolta i Pooh mentre con la sua Uno Turbo grigio topo, con iniezione elettronica e assetto ribassato, affronta e brucia le curve della Vita.

Ora, non si intende negare tout-court l’esistenza un coatto che nella vita fa il bibliotecario, ma osservando la realtà ho l’impressione che tutte le persone che io chiamerei “tamarro” hanno una bassa scolarizzazione (18 anni max) e sono mentalmente infettati dai virus della Cultura Dominante, proprio attraverso quegli accessori che loro esibiscono di più (cellulare, televisione, trash cult movies anni ‘80 etc). Oggi è questa che si potrebbe chiamare zoticoneria. Ed è questo genere di moderna zoticoneria, in fondo, che guida il tamarro a fraintendere il già fin troppo frainteso concetto di moda. Si potrebbe quasi dire che il tamarro è un cool-hunter del cattivo gusto, un radobmante con un fiuto infallibile per l’accessorio pacchiano, per la ciofeca di stagione, per la cineseria più fuffa del momento.

Ora che abbiamo proposto la nostra descrizione di tamarro, pur senza essere riusciti ad arrivare ad una definizione inappellabile, dobbiamo chiederci perché fa così?

Moltissime risposte sono possibili e ciascuna finisce per illuminare solo una porzione del fenomeno. Noi proveremo comunque un paio di strade, con lo scopo appunto di giungere ad una definizione.

La prima risposta che ci sembra coerente è: il tamarro fa parte di quella categoria di persone che Pasolini chiamava gli edonisti: consumatori innamorati di se stessi che abboccano, come l’antico Narciso, ad ogni specchio che restituisce la loro bella immagine.

Tuttavia il tamarro non è un dandy mancato: dopo averne conosciuto qualcuno, mi viene difficile pensare che un coatto che si fa chiamare Er Pupo, sia anche un esteta.

Riesumando l’esempio del tamarro immigrato e del meridionale, ci viene da dire che esibisce il proprio vestito non perché è un bel vestito, ma perché ritiene che il tal abbigliamento o la tal marca soddisfino le aspettative degli altri. Il tamarro si acconcia secondo la moda, accetta acriticamente i miti culturali, i modelli di comportamento standardizzati ed imposti dalla massa, perché così vede la propria immagine applaudita, rispettata, apprezzata. Le sue paure più grandi sono l’emarginazione e la solitudine (ecco come mai si spostano in branchi), e questo un po’ intenerisce, perché sono le paure di tutti.

L’apice della felicità coincide per lui con la completa simbiosi tra Sé e la cultura ospitante, che egli propizia emulando gli atteggiamenti di massa. Ma il suo comportamento genera un interessante paradosso comunicativo. Chi è il vero tamarro? Da dove viene? Quali storie ha alle spalle? Proprio a causa del suo travestirsi, non lo si può arguire dai suoi atteggiamenti. Egli fa di tutto per farsi notare ma la gente finisce per soffermare la sua attenzione sugli orpelli più vistosi e così facendo perde di vista l’individuo. Anzi, lo addita come un istrione, uno scenester, uno che tenta faticosamente di entrare in uno stereotipo. La tamarrità corre dunque sulla linea di confine tra pulsione e repulsione, tra il desiderio del tamarro di riconoscersi nella cultura dominante e la repulsione che la cultura dominante prova verso di lui, e si delinea dunque come un fallimentare tentativo camaleontico di mimetizzarsi con l’ambiente circostante, ed è dunque questa la motivazione che fa del tamarro uno stereotipo che incrocia altri stereotipi, la cui essenza è impossibile da definirsi se non buttando a mare l’involucro esteriore, lo stereotipo stesso di tamarro.

| Voti: 14
di Yuppyyyyy da flu
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L'AUTOMOBILE E IL PATRIMONIO GENETICO DEL TAMARRO

Ad ora tarda, nella casa dei coniugi X, dopo una seratona a base di vinello bianco ed orata al forno, all’interno della vagina della signora X si svolge una gara clandestina: un manipolo di valorosi spermatozoi nuota alla ricerca dell’entrata dell’utero. Sono più di duecentomila e nella fretta si sgomitano, sgummano a velocità folli: 1/ cm al minuto. Nonostante la fotta, però, nessuno sembra prendere il sopravvento e la corsa verso la fecondazione si stabilizza su un testa a testa fratricida che rischia di compromettere il buon esito della copula. Ad un certo punto, però, dalle retrovie uno spermatozoo che tutti davano per spacciato comincia a guadagnare terrenno sugli altri. Sembra proprio che abbia una marcia in più. Osserviamolo meglio: notiamo innanzittutto l’assetto ribassato dello spermatozoo e le gomme minchia Yokohama con minchia cerchi in lega che assomate al flagello danno, minchia!, una trazione integrale. In secondo luogo noteremo minchia la migliore aerodinamicità data dalla presenza di uno spoiler posizionato sulla parte superiore del corpo, prima dell’inizio del flagello. Noteremo poi per la presa d’aria sulla testa dello spermatozoo, che permette al nucleo di rimanere fertile nonostante l’alto rischio di fondere, dato dalle altissime prestazioni. E soprattutto noteremo, posizionato appena sotto il bocchettone, una striscia di led tipo Supercar che oscilla continuamente, avanti e indietro, e che non serve a nulla in particolare, ma è un tocco di classe che gli altri spermatozoi non hanno. In terzo luogo, avvicinando l’orecchio allo spermatozoo, possiamo ascoltare, inequivocabile preludio di una vita, sparato da un mini Blaupunkt a dei subwoofer da 2500 watt che pompano a bomba, un UNZ… UNZ… CISTI… CISTI BAU… BAU… UNZ… UNZ… che sulle prime sembra solo casino ma che all’orecchio più raffinato non potrà non ricordare la smashing hit dell’ultimissimo HITS MANIA DANCE. Ecco, questo spermatozoo così equipaggiato, con una serie di sgummate, più utili all’estetica che alla manovra di superamento, dalle retrovie imbocca le ultime curve delle trombe di Fallopio. Supera i diretti concorrenti, li manda a cagare dal finestrino. Suona continuamente il clacson. E arriva in prima linea. L’Ovulo è ormai all’orizzonte. Guardateli come scalpitano i valorosi! Il nostro sbarbo corre il rischio di essere re-inghiottito nella bolgia di raga inscimmiatissimi che han voglia di nascere e spassarsela e, a quel punto, il nostro spermatozoo è costretto a usare l’arma segreta. Il Nucleo, all’interno della cabina pilotaggio, apre un case, dove sta protetto un pulsante, su cui lampeggia la scritta MINCHIA TURBO BOOST, il Nucleo del nostro eroe sbarbo preme il pulsante e, al grido di: “QUELLA COZZA GIGANTE SARÀ MIA!”, zompa in avanti con un balzo di tre centimetri, brucia i concorrenti sul filo del traguardo, e con l’agilità di un carro di carnevale volante e superaccessoriato si schianta contro la cozza gigante, promettente come una luna piena, che si chiude a trappola dietro di lui, staccando di netto la coda al nostro zio spermino. In quel preciso istante le tube di falloppio della signora X cominciano a strombazzare a festa ed ella, nel sonno, è pervasa da un senso di gaudio che confonde con la soddisfazione post-coitum. Non sa che dentro di lei è nato un piccolo essere che, minchia, sgummerà sulle strade della Vita con il piglio di una PUNTO TI (tarro inside) a trazione integrale con assetto minchia modificato da rally.
| Voti: 14
di io da La mia
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a quello un po' razzista;
si dice rabdomante non radobmante
;)
lo segna pure errore...bisogna essere di molto rincitrulliti
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di tamarrobuster da tamarrotown
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il tamarro nasce negli anni '80: è il tipo che va in giro con maglietta bianca a maniche corte (rigorosamente fruit of the loom) con pacchetto di marlboro dentro la manica arrotolata, levi's 501 (normalmente tarocchi, ma qualcuno li aveva anche originali), ray ban wayfarer, camperos e cinturone el charro, autoradio estraibile sotto il braccio, automobile variabile da alfa 75 a golf gti (ovviamente con assetto ribassato, pianale posteriore per subwoofer da 500 watt e relativo ampli nel bagagliaio). A questo punto la categoria si divide in due sottospecie: quella che non tollera autoadesivi, e quella che riempie l'automobile con le peggiori ciofeche possibili (che vanno dal drogatello con chitarra e sacco a pelo e relativa foglia di maria, agli sticker dei gruppi metal dell'epoca, al simbolino abarth giallo/rosso che fa tanto wannabe ecc.). Accessorio must per tutti: le tendine parasole posteriori con (a scelta) Marilyn Monroe o Jim Morrison. La macchina ovviamente deve avere cerchi in lega lucidati a mano, cinture di sicurezza momo, dadi in gommapiuma da appendere allo specchietto retrovisore, e tutta la discografia di Vasco Rossi (per il tarro che si crede evoluto), o, di norma, dei Pooh.
Altro must del tamarro è il CB (detto baracchino), per colloquiare via radio con altri appartenenti alla tribù; il succitato gadget imponeva il montaggio di antenne di lunghezza variabile tra il metro ed i due metri (piegata a mo' d'arco) con il conseguente effetto "frusta" in caso di accelerazione bruciante per i malcapitati pedoni che si trovavano a passare li vicino.
Il tamarro minorenne invece era dotato di motorino ciao/sì piaggio, fifty malaguti, vespa pk o px, garelli, tutti immancabilmente dotati dei seguenti accessori: sella falcon della spaam (con o senza frange), marmitta proma, carburatore polini. I vespisti inoltre installavano un autoradio con relative casse (mini) nel bauletto anteriore del mezzo.
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